Roma, 8 marzo 2014
Antonio Di Ciaccia
Il dolore di esistere
Una persona che esercita la funzione di psicoanalista ha costantemente a che fare con il dolore. Tutti coloro che bussano alla sua porta non sono mai spinti dalla felicità, ma dall’infelicità. Si tratta sempre di qualcuno che chiede aiuto – perché sta male, perché soffre, perché è angosciato, perché sente di essere trapassato da un lancinante dolore psichico.
Provare infelicità è assai meno difficile che provare felicità, ricorda Freud. “La sofferenza ci minaccia da tre parti: dal nostro corpo che, destinato a deperire e a disfarsi, non può eludere quei segnali di allarme che sono il dolore e l’angoscia, dal mondo esterno che contro di noi può infierire con forze distruttive inesorabili e di potenza immane, e infine dalle nostre relazioni con altri uomini. La sofferenza che trae origine dall’ultima fonte viene da noi avvertita come più dolorosa di ogni altra”. Tanto che per l’essere umano “il compito di evitare il dolore relega sullo sfondo quello di procurarsi il piacere”. [1]
Freud declina il dolore nei diversi aspetti in cui si presenta nell’esperienza psicoanalitica. Per esempio, come correlato corporeo del sintomo isterico, oppure come elemento centrale di un sogno, o ancora come componente essenziale nella melanconia, ovvero ancora come reazione alla perdita. Sebbene egli si domandi, senza riuscire a rispondere: “quand’è che la separazione dall’oggetto genera angoscia, quando lutto e quando, magari, soltanto dolore?”[2]
Il dolore colpisce sempre nel corpo. Eppure nell’essere umano non colpisce solo il corpo in quanto organismo, poichè il dolore non è solo quello somatico ma è dolore anche quello psichico, quello che colpisce la mente. In questo senso il corpo non è altro che la sede del godimento. E’ in questo senso che Lacan potrà dire nell’intervista fatta per la televisione francese che il sofferente è “uno che soffre del suo corpo e del suo pensiero”.[3]
Il dolore non deve essere considerato puramente e semplicemente nel registro delle reazioni sensoriali. La chirurgia del dolore ci mostra infatti che anche nel caso del dolore somatico non si tratta di qualcosa di semplice. Il dolore somatico è complesso, come prova il fatto che la notazione del dolore venga mantenuta anche quando è stata soppressa la causa specifica della patologia, come avviene nel caso dell’amputazione degli arti. Comunque, nonostante le ricerche della fisiologia moderna, non è possibile rendere conto del dolore compiutamente. Da parte sua Lacan si accontenta di suggerire che probabilmente si deve concepire il dolore come un campo che, nell’ordine dell’esistenza, cito, “si apre precisamente a partire dal limite in cui non c’è possibilità di muoversi. [ E continua] Non si dischiude forse qualcosa a questo proposito attraverso una specie di appercezione poetica, nel mito di Dafne che si trasforma in albero sotto la pressione di un dolore a cui non si può più sfuggire? Non c’è forse in quel che noi stessi facciamo del regno della pietra, nella misura in cui non la lasciamo più rotolare ma la squadriamo e ne facciamo qualcosa di inamovibile, non c’è forse nell’architettura stessa una sorta di presentificazione del dolore? Che cosa è avvenuto all’epoca del barocco, sotto l’influsso di un momento storico […] va proprio in questo senso. Si è tentato allora di fare dell’architettura stessa una specie di tensione verso il piacere, di conferirle una specie di liberazione, che in effetti la fa fiammeggiare in quel che ci sembra quasi un paradosso nella storia dell’opera muraria e dell’edilizia. E questa tensione verso il piacere, che cosa produce se non delle forme che, nel nostro linguaggio che in questo caso è metaforico e come tale va lontano, chiamiamo tormentate?”[4]
Prendiamo alcuni aspetti riguardanti il dolore che compaiono nel corso dell’esperienza analitica. A questo riguardo faremo qui riferimento a dei casi clinici di Freud nella rilettura che ne dà Lacan.
Partendo dall’assiona che in psicoanalisi si chiama sintomo, nel senso più generale, sia il sintomo morboso sia il sogno, Lacan chiama sintomo tutto ciò che è analizzabile. [5]
Tuttavia il sintomo si presenta sempre sotto una maschera, sotto una forma paradossale. Prendiamo in esame uno dei primi casi di Freud, quello di Elisabeth von R., qui il sintomo si presenta sotto una forma ambigua: da un lato tende alla realizzazione di un desiderio represso ma, dall’altra, si manifesta con un dolore fisico, in questo caso alla coscia destra in alto. Questo dolore si presenta in primo luogo in modo chiuso, apparentemente refrattario al lavoro analitico. Nel caso in questione il desiderio represso che legava la paziente a uno dei suoi amici d’infanzia che ella sperava di sposare e, successivamente nella sua vita, il desiderio verso i mariti delle sue due sorelle, uno che rappresenta il buon desiderio maschile e, l’altro, il cattivo, si pietrifica nel dolore alla gamba che è Freud stesso a mettere in relazione con la lunga permanenza della paziente nell’assistenza che ella fa al padre malato, sottolineando che il dolore si situa esattamente in quel posto della gamba della ragazza dove “ogni mattina veniva poggiata la gamba del padre”.[6]
Ecco in che modo il sintomo – qui per l’esattezza il sintomo isterico – parla nella seduta. Ciò che Freud ci dice in questo caso, ricorda Lacan, “è che i dolori che riappaiono, si accentuano e diventano più o meno intollerabili durante la seduta stessa, fanno parte del discorso del soggetto”,[7] fino al punto che Freud commisura la più o meno grande intensificazione del sintomo all’intensità della modulazione della lamentela durante la seduta.
In questo caso il dolore dà voce al sintomo nella seduta. Cosa che accade, come abbiamo detto, in modo precipuo nel sintomo isterico. Poiché “nel sintomo – ed è questo che vuol dire conversione – il desiderio è identico alla sua manifestazione somatica”.[8]
Prendiamo ora un’altra modalità che ha il dolore di rendersi presente nell’esperienza psicoanalitica. In questo caso il dolore non è più somatico ma acquista la valenza di un dolore psichico e, cosa importante per la teoria analitica, prende a volte consistenza in un sogno.
Ne citeremo uno, che Freud inserisce tra i “sogni assurdi” e riguarda il sogno di un suo paziente che, dopo aver curato il padre nel corso di una lunga malattia ed essere stato gravemente addolorato per la sua morte, fa questo sogno: “Suo padre è di nuovo in vita e parla con lui come una volta, però (questo è l’elemento straordinario) è pur sempre morto, ma non lo sa”.[9]
Il testo del sogno si comprende, dice Freud, solo se dopo “è pur sempre morto” si inserisce: in conseguenza del desiderio del sognatore.
“Il pensiero del sogno è allora questo: per il soggetto è doloroso ricordare che egli aveva dovuto augurarsi la morte del padre (come liberazione), mentre questi era ancora in vita; e quanto sarebbe stato orribile se il padre avesse sospettato una tal cosa! Si tratta quindi della nota situazione di autorimprovero dopo la perdita di una persona amata, e in questo esempio il rimprovero risale al significato infantile del desiderio di morte rivolto verso il padre”.[10]
Abbiamo quindi il fatto che, nel sogno, c’è qualcosa di assurdo, riassunto nella frase che il soggetto è “penetrato […] da un profondo dolore al pensiero che suo padre era morto e che non lo sapeva”.[11] Questa formula, dice Freud, prende senso solo se si aggiunge che era morto secondo il suo desiderio. Riassumendo: egli non sapeva che era secondo il suo desiderio che egli era morto.
Ora, nel sogno ogni personaggio sognato rivela e nasconde qualche cosa del sognatore stesso. Per questo Lacan ripartisce, in primo luogo, gli elementi in gioco tra i personaggi del sogno, ossia tra il figlio e il padre, poi, in secondo luogo, di colui che fa il sogno.
Nel sogno, da parte del figlio che cosa troviamo? Un dolore. Dolore di che cosa? Che egli era morto. Da parte dell’altro personaggio del sogno, ossia del padre, al posto che corrisponde al dolore del figlio appare un egli non sapeva. Egli non sapeva che cosa? Anche qui: che egli era morto. Come complemento viene l’aggiunta: secondo il suo desiderio. Come giustamente dice Freud, questo è il senso del sogno, e quindi qui risiede la sua interpretazione. In altre parole, il secondo il suo desiderio che si ripartisce sui due personaggi del sogno, figlio e padre, rivela in realtà, ma ora solo per il soggetto che fa il sogno, ossia per il figlio, rivela dunque non solo la rivalità che lui, in quanto figlio ha verso il padre e il conseguente desiderio di morte, ma mette altresì in risalto l’ignoranza del padre circa il proprio stato. Ignoranza che provoca nel soggetto, in modo assurdo, un dolore. Certo, commenta Lacan, si tratta del dolore che il figlio “aveva provato, intravisto, nel partecipare agli ultimi momenti del padre. Ma si tratta anche del dolore dell’esistenza in quanto tale, in quel limite in cui l’esistenza stessa sussiste in uno stato in cui nulla è colto maggiormente se non il suo carattere inestinguibile e il dolore fondamentale che lo accompagna quando ogni desiderio se ne cancella, quando ogni desiderio è svanito da questa esistenza”.[12] Questo dolore il soggetto che sogna lo prende su di sé, ma, poiché è acciecato dal dolore per il fatto che il padre è morto dopo una lunga e penosa agonia, non vede che il dolore in realtà riguarda egli stesso, lo riguarda in prima persona: il sognatore è in preda al dolore per il fatto che tra lui e la propria esistenza viene a mancare ciò che è la cosa più essenziale, ossia il desiderio. Desiderio che ha come supporto non uno qualunque, ma un personaggio speciale che è per ogni essere umano il padre. “Per dirla in un linguaggio più grossolano – chiosa Lacan – noi sappiamo che la morte del padre è dal soggetto sempre percepita come la sparizione di quella specie di scudo […] che è il padre nei confronti del padrone assoluto, vale a dire la morte”.[13]
Per riassumere, il sognatore, il figlio dunque, si accolla il dolore dell’altro, del padre. Non solo come memoriale del dolore sofferto dal padre, ma come segno che si trova, lui, solo di fronte alla morte, senza più quello scudo che era la protezione paterna. Di tutto questo il soggetto non vuole saperne niente e accolla sul padre quest’ignoranza. Il desiderio del sognatore è proprio quello di sostenersi servendosi di questa ignoranza stessa. “E’ esattamente qui il desiderio del sogno”,[14] conclude Lacan.
Qui il desiderio di morte prende tutto il suo senso: è il desiderio di non svegliarsi più, di non svegliarsi per non essere confrontato con il messaggio più segreto del sogno, ossia il fatto che, a causa della morte del padre, il figlio si trova senza difese e deve affrontare, non solo il dolore della morte del padre, ma, da una parte, affrontare il dolore che concerne il padre al di là della sua morte, ossia mettere a fuoco il punto nodale del complesso di Edipo, il quale non riguarda tanto la sparizione reale del padre, cioè la sua morte, quanto piuttosto la sua sparizione simbolica, ossia ciò che nella teoria psicoanalitica viene indicato con il termine di castrazione, e che Lacan sintetizzerà diversi anni dopo in una formula magnifica ed eloquente: “l’evaporazione del padre”. Ma d’altro canto il sognatore, il figlio dunque, è, senza più difesa confrontato con il problema della propria morte e si trova, senza più alcuno scudo che lo protegga, di fronte al dolore di esistere.
Prendiamo dunque in esame questo “dolore di esistere”.
Classicamente il “dolore di esistere” viene indicato come una connotazione specifica della depressione grave, quella cosiddetta endogena, detta anche ciclotimia e conosciuta da sempre con il nome di malinconia. La melanconia è il dolore di esistere allo stato puro.
Freud, nei suoi testi, mette in parallelo e a contrasto il lutto con la malinconia.[15] Nel lutto il dolore è quello della perdita della persona amata, dell’oggetto d’amore, per dirla in termini analitici. Il lutto, per quanto doloroso, non è di per sé uno stato patologico. Il dolore si riassorbe dopo un certo lasso di tempo, in un modo, direi, quasi automatico. Eventualmente dei riti, riti sociali, possono contribuire a rendere più vivibile il dolore della perdita, poiché i riti dànno alla persona scomparsa una consistenza simbolica. Consistenza che permette, alla persona non più presente nella realtà, di mantenere una presenza, direi eterna, tramite il simbolico: diventa puro signicante. E sarà questa presenza, tramite il simbolico, a essere reinvestita dalla libido del soggetto, il quale, a mano a mano che la libido si rimette in circolazione, vede diminuire la propria sofferenza.
La malinconia è lo stato di un impossibile lavoro di lutto. Senza entrare qui nei meandri della clinica psicoanalitica della melanconia, noteremo che già Freud riscontra un’identificazione del malinconico da un lato con il padre morto e, dall’altro, con l’oggetto perduto. Quello che rende psicosi la melanconia è il fatto che non c’è reinvestimento libidico come avviene normalmente nel lavoro del lutto: l’Io del soggetto si trova identificato con l’oggetto perduto freudiano, ovvero, per dirla con Lacan, con l’oggetto “scarto”, ma – precisa Lacan – nella congiuntura in cui questo oggetto scarto non è puntalizzato dalla significazione fallica, cosa che avviene quando c’è forclusione del Nome-del-Padre. Per questo la melamconia è una psicosi.
In questo caso il dolore di esistere proprio della malinconia scivola, in modo tragico ma logico, verso l’esito suicida. Il soggetto, nel suicidio malinconico, non fa un appello all’Altro, ma, radicalmente, si separa dall’Altro, che esso sia un altro essere umano oppure il mondo sociale in quanto tale.
Diversamente accade nel caso di quel “dolore di esistere” che investe il nevrotico. Anche qui il soggetto si trova in quella che viene chiamata depressione, anche qui il soggetto ha l’esperienza della derelizione, di quello stato di Hilflosigkeit, come lo chiama Freud, di quello stato di détresse, come lo chiama Lacan, in cui il soggetto si trova nella situazione di un essere mancante di ogni forma di aiuto.
Come abbiamo visto poc’anzi nel sogno citato prima, il dolore è causato dalla mancanza della figura paterna che non fa più da scudo al soggetto. Fondamentalmente non è tanto il padre, o la figura paterna a servire da scudo contro il dolore di esistere, ma, propriamente parlando, l’emergenza e la presenza di un desiderio, un desiderio soggettivato, come lo chiama Lacan. Anche nel caso di un nevrotico, nudo, senza la copertura di un desiderio soggettivato, il dolore di esistere può indurre il soggetto a tendere e giungere eventualmente al suicidio. Suicidio non meno drammatico, tuttavia strutturalmente diverso, poiché in questo caso si tratta di un suicidio di appello, di richiamo fatto all’Altro, di sollecitazione indirizzata all’Altro là dove il soggetto chiede di essere sostenuto. A questa forma di depressione Lacan dà un nome: la chiama tristezza. E la tristezza ha un solo modo di dileguarsi come nebbia al sole: tramite il gaio sapere, dice Lacan, ovvero arrivare a saper “godere della decifrazione”[16] dell’inconscio, ossia, per dirla in parole povere, connettersi di nuovo con il proprio desiderio inconscio.
E’ questo il compito dello psicoanalista.
Rispetto alle due possibilità citate che si presentano nella forma di “dolore di esistere”, quest’ultima, ossia quella in cui il soggetto è nella tristezza poiché la connessione con il desiderio inconscio è interrotto o mal funzionante per varie cause, lo psicoanalista ha, di per sé e se ne è all’altezza, gli strumenti per procedere. Strumenti classici che Freud ha indicato e che Lacan ha precisato, e che si riassumono nella messa in moto e nel corretto funzionamento della struttura dell’inconscio, tramite, per l’appunto, l’esperienza analitica. Per dirla con parole che facciano eco a quelle d’entrata del mio intervento, si tratta di rimettere in movimento la parola, la parola che dica non un bla-bla qualunque, ma, attraverso quella che viene chiamata l’associazione libera, la parola in cui il soggetto al di là dei detti, si ritrovi come soggetto di una enunciazione soggettiva. Per dirla con il primo Lacan, con una parola piena.
Diverso è il caso, per uno psicoanalista, di che cosa possa rispondere al “dolore di esistere” malinconico. Non mi addentrerò in questo settore, impenetrabile per decenni, ma di cui Lacan ha lasciato intravedere finalmente uno spiraglio, direi un pertugio, che potrebbe permettere una certa qualche valida operazione.
Vorrei qui riportare alcune frasi scritte e inviatemi, ormai diversi anni fa, da una persona per la quale il “dolore di esistere” è stata la conseguenza dell’improvvisa scomparsa della figura paterna, e a causa di questa scomparsa, dell’improvviso ritrovarsi uno stato di abbandono e di profonda derelizione. Il padre l’aveva lasciata cadere, poiché lui stesso era caduto in uno stato malinconico.
Traduco in italiano le frasi che mi sono state inviate nella lingua di origine, che è il francese, e che fanno parte di una specie di diario che l’analizzante teneva, a mia insaputa, nel corso dell’esperienza analitica.
“Dolore… si può parlare del dolore?
Il dolore non si vede.
Cerco termini per descrivere il film muto del dolore.
Mi viene in mente un libro di Marguerite Duras, quei racconti spezzati. Singhiozzi di parole. Forse sì, si può parlare del dolore, ma senza nominarlo, spezzando le parole come il dolore spezza i pensieri. O forse si può solo parlare “intorno” al dolore, alla pozza informe che esso costituisce. Intorno al limite di vuoto che cela. Ma quel vuoto, può essere toccato? Nominato? Ci sono parole per chiamarlo? Per descriverlo?
Vengo in cerca di parole in avenue Parmentier [l’indizzo del mio studio a Bruxelles], in cerca di parole perdute, nascoste, sopraffatte dal dolore, incistate nei labirinti della mia vita, parole incrostate nella memoria, soffocate dal tempo. Perse per sempre? Oppure mai conosciute?
Cerco le “parole” e non il “senso”. Non cerco le strade cariche di senso e coperte da spiegazioni inutili.
Oggi, una seduta di dolore, parole come pietre e lacrime, che al posto di perdersi nel vuoto si posano sul filo del suo respiro [dell’analista]. Solo un respiro che s’insinua nella solitudine di una mente, lì dove anni di parole non hanno avuto la capacità di entrare. Solo uno sguardo, una stretta di mano e il promemoria che siamo insieme a lavorare su quelle parole mute.
Cerco la vita segreta delle parole impossibili.
Sono murata nel silenzio. Ma tu [nel diario si rivolge all’analista] non molli, questa è l’unica ragione per sopportare il tempo”.
***
Prima di terminare dirò una parola sul sado-masochismo. Di solito per parlare del dolore nell’esperienza analitica il riferimento corre al sadismo e al masochismo. Non ho preso questa strada, anche se è di grandissima importanza. Non l’ho presa perché il dolore, in ambedue i casi, è solo un corollario. “Freud articola nel modo più fermo che, all’inizio della pulsione sadomasochista, il dolore non centra per nulla”,[17] dice Lacan e come esempio porta il fatto che “l’asceta che si flagella, lo fa per un terzo”. La cosa importante infatti nel caso del sadomasochismo è il circuito della pulsione. Quello che è ricercato è il godimento tramite l’eccitamento sessuale e non già il dolore in quanto tale. Quando, nel circuito della pulsione sadomasochista si inserisce la possibilità del dolore subìto da quello che è diventato il soggetto della pulsione?[18] Quando il soggetto si è fuso con il termine, il capolinea della pulsione. “In quel preciso momento il dolore entra in gioco in quanto il soggetto lo prova proveniente dall’altro”.[19] Soprattutto nel caso del sadomasochismo “il dolore non è un segnale di danno, ma un fenomeno di autoerotismo”.[20]
[1] S. Freud, “Il disagio della civiltà”, Opere, vol. 10, Boringhieri, Torino, 1978, p. 568.
[2] S. Freud, “Inibizione, sintomo e angocia”, Opere, vol. 10, cit., p. 314.
[3] J. Lacan, “Televisione”, Altri scritti, Einaudi, Torino, 2013, p. 508.
[4] J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi 1959-1960, Einaudi, Torino, 2008, p. 70-71.
[5] J. Lacan, Il seminario. Libro V. Le formazioni dell’inconscio 1957-1958, Einaudi, Torino, 2004, p. 333.
[6] S. Freud, “Studi sull’isteria”, Opere, vol. 1, cit., p. 302.
[7] J. Lacan, Seminario V, cit., p. 335.
[8] Ibidem, p. 346.
[9] S. Freud, “L’interpretazione dei sogni”, Opere, vol. 3, cit., p. 394.
[10] S. Freud, “Precisazioni sui due princìpi dell’accadere psichico”, Opere, vol. 6, cit., p. 459-460.
[11] J. Lacan, Le séminaire. Livre VI. Le désir et son interprétation 1958-1959, Ed. de la Martinière-Le Champ freudien ed., Paris, 2013, p. 113.
[12] Ibidem, p. 144.
[13] Ibidem, p. 144.
[14] Ibidem, p. 122.
[15] S. Freud, “Lutto e malinconia”, Opere, vol. 8, cit. p. 102 ss.
[16] J. Lacan, “Televisione”, Altri scritti, cit., p. 521.
[17] J. Lacan, Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi 1964, Einaudi, Torino, 2003, p. 177.
[18] S. Freud, “Pulsioni e loro destini”, Opere, vol. 8, cit., p. 24.
[19] J. Lacan, Il seminario XI, cit., p. 178.
[20] J. Lacan, Le séminaire. Livre IX. L’identification 1961-1962, 28 février 1962 (inedito).