Milano, 11 giugno 2016

Il tempo della seduta psicoanalitica

Sul tempo della seduta psicoanalitica si è giocata la partita tra Lacan e l’Internazionale freudiana. “Il nostro forte – scrive Lacan – è di non aver ceduto su questo punto”.[1]

Eppure, se si eccettua una parte di Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, Lacan riprende questo punto – che pur aveva definito “pietra di scarto o pietra d’angolo” – solo con fugaci indicazioni. Secondo Jacques-Alain Miller, Lacan ha voluto mascherare questa sua innovazione.[2]

Vorrei parlarvi di due punti.

Primo punto. Come conciliare l’inconscio “atemporale”, [3] di Freud, con l’affermazione di Lacan che “l’inconscio esige tempo per rivelarsi”[4] ?

Secondo punto. In Lacan, il tempo della seduta non ha sempre lo stesso valore operativo.

Primo punto.

In una certa concezione standard l’analisi si svolge in sedute a durata fissa, in una serie quantificata per settimana. La seduta è, grazie all’interpretazione, il luogo della comprensione dei dati inconsci. L’interpretazione rischia però di essere inglobata nell’inconscio. Come, per esempio, quando l’analizzante prevede l’interpretazione che verrà data.

Lacan disgiunge l’inconscio in due dimensioni, che Jacques-Alain Miller chiama inconscio-ripetizione e inconscio-interpretazione.[5]

Il compito dell’analista è quello di fare in modo che si sviluppi l’inconscio-ripetizione, per far poi intervenire l’inconscio-interpretazione, senza che possa essere reintegrato nell’inconscio-ripetizione.

L’inconscio-ripetizione funziona benissimo da sé senza bisogno di nessuno e senza che nessuno ne sappia niente. Qui l’inconscio si manifesta come ripetizione del medesimo, quello che, pur ripetendosi nel presente, non si addiziona mai, non modifica l’effetto del passato, non produce nessuna modificazione soggettiva.

L’inconscio-ripetizione si manifesta tramite il sintomo: il sintomo è sempre lo stesso, pur presentandosi in situazioni diverse. È questo inconscio che Freud definisce atemporale. A questo inconscio viene attribuito un essere, e quindi uno statuto ontologico.

Il sintomo svela anche l’altra faccia dell’inconscio, poiché il sintomo è un appello all’inconscio-interpretazione. Questo aspetto, prima ancora di indirizzarsi all’Altro, si rivolge al soggetto stesso. Cosa che gli permetterà la preinterpretazione del sintomo, che è, sovente, la molla di una sua richiesta di analisi.

L’incontro con quel significante qualunque a cui si indirizza il sintomo dovrebbe avvenire come un evento, un trauma, una “tuke”,[6] un “bon heur”[7] nel linguaggio di Lacan, che venga a intaccare l’ “automaton” dell’inconscio-ripetizione.

Già questo incontro con la funzione-analista provoca una rottura nella temporalità. Laddove la ripetizione non era altro che la ripetizione dello stesso, ora si produce un’addizione di sapere.

Questa addizione di sapere trasforma l’inconscio-ripetizione nel soggetto-supposto-sapere. Ed è per questo tramite che viene introdotta la funzione-tempo nell’inconscio.

L’analizzante si alleggerisce di questo sapere e lo porta a carico dell’analista. Il quale, se non ci sono controindicazioni, lascerà che questi significanti lo investano. Qui, se Freud me lo consente, parlerei di incorporazione – Einverleibung – del sapere inconscio da parte dell’analista.

Tramite il transfert si opera dunque, cito Lacan, “l’immistione del tempo di sapere”.[8]

Da atemporale l’inconscio si dispiega nel tempo.

Questo inconscio è “qualcosa dell’ordine del non-realizzato”,[9] qualcosa allo stato virtuale, che ha la possibilità di attualizzarsi nella seduta. Atto – in cui si concretizza il destino del soggetto, ossia, cito Lacan, “il rapporto dell’uomo con quella funzione che chiamiamo desiderio”.[10]

Per dirla con Lacan: “à l’étant faut le temps de se faire à être”,[11] all’ente, all’essente, occorre il tempo per assuefarsi a essere, per farsi essere, per farsi a, oggetto a, essere.[12]

A questo nuovo inconscio Lacan non assegna lo statuto ontologico, ma uno statuto etico. È un inconscio che non è più l’elaborazione del passato nel presente, poiché dal presente si proietta verso il futuro.

La seduta è il luogo in cui, in concomitanza con lo sdoppiamento dell’inconscio, che possiamo ora chiamare inconscio freudiano e inconscio lacaniano, avviene lo sdoppiamento della temporalità.

L’arte dell’analista consiste nel modulare in modo flessibile questo doppio rapporto inconscio-tempo. Questo sdoppiamento che era già noto a Freud, che non ha potuto, o saputo, enucleare le risorse del suo Wo Es war, soll Ich werden.

Secondo punto.

Il tempo della seduta non ha sempre, in Lacan, lo stesso valore operativo.

Per dirigere la cura, l’analista utilizza, in prima istanza, lo stesso discorso dell’inconscio-ripetizione che comanda a bacchetta il sintomo, ossia usa il discorso del padrone. Per dirla con Jacques-Alain Miller, nella seduta l’analista mette in piedi “una parodia” del funzionamento dell’inconscio-ripetizione.[13] A questo titolo si esige dal paziente la sottomissione al significante. L’imposizione della regola fondamentale entra in questa ottica. Come pure l’uso del tempo variabile nella seduta. Con uno scopo preciso: quello di rovesciare il discorso dell’inconscio, ossia del padrone, nel discorso analitico.

Nella seduta, l’analista si serve del tempo variabile per mettere la punteggiatura a un testo che ne è privo, e per far questo, armato della fronesis, che è la virtù dell’analista, coglie l’occasione, il momento propizio, e utilizza tutte le risorse dell’interpretazione: puntuazione, citazione, allusione, enigma, deciframento, nominazione, taglio – al fine di provocare l’effetto “sorpresa”.[14]

Se a livello del sapere che si produce nell’analisi l’analista può limitarsi all’incorporazione, ora l’analista dovrà poter incarnare, non incorporare, incarnare – Verkörperung, termine che Freud non utilizzza mai, almeno in questa accezione – incarnare con il suo corpo, quella presenza, presenza reale, che rappresenta la parte non simbolizzabile del godimento.[15] Per poter far ciò l’analista deve aver isolato la causa di un sapere nuovo, che gli fa orrore. “Da quel momento sa essere uno scarto”,[16] scrive Lacan. E potrà incarnare l’oggetto a in posizione di agente – ossia occupare quello che Lacan chiama il posto del sembiante – nel discorso analitico.[17]

Il tempo della seduta non serve più al deciframento ma al taglio. In più, per arrivare al suo scopo, Lacan introduce un nuovo oggetto a, direttamente collegato con il tempo: la fretta.[18]

Con il taglio, atto chirurgico, si punta a una doppia operazione: da un lato isolare il significante dalla catena associativa, e, dall’altro, una volta isolato, mettere a nudo il suo statuto di lettera, ed evidenziare la sua saldatura con il godimento.

Freud parla qui di punto di fissazione, che è per noi – cito Miller – “la congiunzione dell’Uno con il godimento”.[19] È questo Uno che ritorna sempre allo stesso posto e per questo lo chiamiamo “reale”.[20]

Lacan sostituisce però la seduta a tempo variabile con la seduta corta, per arrivare alla sua seduta ultracorta, seduta lampo, seduta fulmine, dove non si può più parlare neppure di taglio, ma di fine seduta.

La sua seduta non è più destinata a svuotare il soggetto del sapere, del sapere inconscio accumulato, a evitare che la seduta venga usata contro l’analisi, la parola contro il reale, ma è destinata, per dirla con Lacan, a far passare l’analizzante per quel buco che “gli è offerto, a lui, come singolare”.[21]

Quel buco, Unerkannte o Urverdrängung di Freud, effetto del trauma del linguaggio sul corpo, è in funzione di quell’Un-corpo marchiato, segnato dalla lettera di godimento che il parlessere ha – e ha da isolare tramite l’Un-dire.[22]

Il tempo della seduta di Lacan si riduce così all’istante, ma non in funzione dello sguardo. La seduta istantanea è in funzione della “scabellostrazione“,[23] ossia della castrazione dello sgabello, che comporta l’epurazione del godimento fuori-corpo: godimento fallico e godimento della parola.[24] Per questo, alla fine, la seduta di Lacan è quell’istante che implica la voce a-fona,[25] nel tempo tra il voler dire analizzante e la fine della seduta posta dall’analista.

La seduta non è in funzione del tempo per comprendere, cosa per cui c’è tutto il tempo che ci vuole, fuori seduta, a volte per anni. E a cui fa seguito il momento per concludere che prende forma in quell’evento di corpo,[26] corpo che si gode, fuori senso, che è il sinthomo, e di cui alcuni testimoniano nella passe.

Antonio Di Ciaccia


[1] J. Lacan, Scritti, vol. I, Einaudi, Torino 1974, p. 309, n. 1.

[2] J.-A. Miller, Nullibiété, Corso del 2007-2008, Lezione del 23-1-2008, inedito

[3] S. Freud, L’inconscioOpere, vol. 8, p. 71.

[4] J. Lacan, Op. cit., p. 306.

[5] J.-A. Miller, Les-us-du-laps, Corso del 1999-2000, Lezione dell’8-3-2000, inedito.

[6] J. Lacan, Il seminario. Libro XII quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, Einaudi, Torino 2003, p. 52-53.

[7] J. Lacan, “Télévision”, Autres écrits, Seuil, Paris 2001, p. 526; cfr. trad. it. “Televisione”, Altri scritti, Einaudi, Torino 2013, p. 521.

[8] J. Lacan, Scritti, cit., p. 322, n. 2.

[9] J. Lacan, Il seminario XI, cit., p. 24.

[10] J. Lacan, Il seminario. Libro X. L’angoscia, Einaudi, Torino  2007, p. 256.

[11] J. Lacan, “Radiophonie”, Autres écrits, cit., p. 427.

[12] Cfr. J. Lacan, “Radiofonia”, Altri scritti, cit., p. 423.

[13] J.-A. Miller, Les us du laps, cit., Lezione del 2-2-2000, inedito.

[14] J.-A. Miller, “Introduzione all’erotica del tempo”, La Psicoanalisi, n. 37, 2005, p. 37.

[15] Cfr. J.-A. Miller, Les us du laps, cit., Lezione del 17-11-1999, inedito.

[16] Cfr. J. Lacan, “Nota italiana”, Altri scritti, cit., p. 305.

[17] Cfr. J. Lacan, “Televisione”, Altri scritti, cit., p. 515.

[18] J. Lacan, Il seminario. Libro XX. Ancora, Einaudi, Torino 2011, p. 47; cfr. J. Lacan, Le séminaire. Livre XVI. D’un Autre à l’autre, Seuil, Paris 2006, p. 209.

[19] J.-A. Miller, L’Essere e l’UnoLa Psicoanalisi, n. 53-54, 2013, p. 198.

[20] Ibidem.

[21] J. Lacan, “Sulla regola fondamentale” (1975), La Psicoanalisi, n. 25, 2004, p. 12.

[22] Cfr. J.-A. Miller, L’Essere e l’UnoLa Psicoanalisi, n. 52, 2012, p. 174.

[23] J. Lacan, “Joyce il Sintomo”, Altri scritti, cit., p. 559.

[24] Cfr. J.-A. Miller, “Il corpo parlante”, Scilicet: il corpo parlante, Alpes, Roma 2016, pp. XXX.

[25] Cfr. J.-A. Miller, “Jacques Lacan e la voce”, La Psicoanalisi, n. 46, 2009, p. 183.

[26] J. Lacan, “Joyce il Sintomo”, Altri scritti, cit., p. 561.