Nadia Fusini, Antonio Di Ciaccia.

Il Lacan che Joysce.
Tradurre Lacan.
Interventi tenuti in occasione della presentazione degli Altri scritti presso la Casa delle Traduzioni di Roma il 20 febbraio 2014.

NADIA FUSINI: Tradurre è un po’ come servire due padroni, se ne scontenta sempre uno. La scelta sarà allora a chi essere più fedele, chi provare davvero a contentare, dei due padroni…

Un’altra immagine del traduttore è quella del go-between, del ruffiano, di uno che traffica tra due lingue e nel traffico, però, e questo rende la professione così strana, non ci guadagna nulla, di certo non in denaro… E allora di che gode? è una domanda da affrontare – tanto più in ambito analitico.

Deve esserci del piacere, altrimenti chi traduce non si renderebbe schiavo di due lingue e non si lascerebbe come un asino in mezzo ai suoni comandare da due padroni, prendendo spesso sberle e calci da entrambi. Perché ostinarsi in un mestiere, che non dà né fama particolare, né guadagno? Provo a indagare nel fascino losco di quest’atto infame – senza fama né onori – facendomi brevemente accompagnare da un illustre traduttore: Eugenio Montale. Poi verrò a Monsieur Di Ciaccia.

Montale confessò di essersi applicato alla traduzione con svogliatezza, parlò di “forzata e sgradita attività di traduttore”. In qualche modo fece capire di farlo per denaro; benché poco ne aveva bisogno. È per questo dio, del resto, che il ruffiano lavora; o perlomeno, così dice. Anche se in verità, per questo dio, ne serve un altro – quello dell’amore.

Altrove, Montale riconobbe che a qualcosa gli servì sforzarsi con tanto dispendio di energia; lo portò a “scavare un’altra dimensione nel nostro pesante linguaggio polisillabico” – così disse. Un linguaggio, continuò che a lui pareva “rifiutarsi a una esperienza come la mia”. Cioè, l’esperienza della sua poesia. Che è la vera attività che gli sta a cuore.

Ma ribadì: “La lotta non fu programmatica”. “Forse”, ripetè, se ha trovato la sua lingua è perché lo ha “assistito” disse, “la mia forzata e sgradita attività di traduttore”.

Si potrebbe anche dire: in quello che ha fatto, e cioè per arrivare alla poesia che ha scritto, gli è servito aver tradotto.

“Forse”, lui dice. “Senz’altro”, direi io. Nel senso almeno che le traduzioni di Montale, in particolare quelle shakesperiane, sono senza dubbio un incontro, una vera e propria realissima e umanissima “relazione”, che come tutte le vere relazioni umane lo ha arricchito.

Inutile che vi dica che per un poeta non v’è relazione che conti di più che quella linguistica. Se si è poeti, è chiaro che gli incontri più profondi avvengono nella lingua, grazie alla lingua. Del resto, altrove Montale dice che il poeta è l’uomo che scrive, non che vive. L’eccitazione vitale al poeta viene dalla lingua. Una reale esperienza dell’altro è per il poeta quella dell’altra lingua.

Di questa qualità e genere, e cioè un’esperienza, è l’incontro di Montale – negli anni ’30 e ’40, gli anni della guerra e del fascismo- con la lingua poetica inglese. Gli anni in cui incontra – nella lingua – T.S.Eliot, Hopkins, Shakespeare. Ma non sono qui per parlare di Montale, ma di Di Ciaccia e delle sue traduzioni di Lacan. E sono qui per dire che in particolare questo ultimo volume, gli Altri scritti, mi pare un esempio superbo di traduzione, ovvero di invenzione linguistica. È qui che Di Ciaccia si dimostra un sublime seguace, un magistrale adepto, un allievo incomparabile del maestro.

Perché qui Di Ciaccia incontra Lacan e la sua lingua, il francese, a una sublime altezza: il francese di Lacan è un’invenzione, nessuno parla così in francese… E qui si ripete credo l’innamoramento che immagino Di Ciaccia provò quando incontrò il Maestro. Non mi sorprende se all’inizio Di Ciaccia, come mi ha a volte raccontato, ebbe le vertigini: non mi sorprende se se ne innamorò – della lingua francese, di Lacan, intendo dire. Certo è che se ne cibò, e quella lo nutrì, e lo trasformò. Trasformò la sua di lingua, intendo dire.

Quello che si sente nella traduzione di Di Ciaccia è che allo stesso modo di Lacan gioca con le parole, segue il loro aire, assecondando la lingua originale che lo trasporta, lo transla, nel senso di una translazione, che sottende l’atto del tradurre. Dietro questo atto c’è un’operazione di trasporto – translare, transferre… Il prefisso trans è fondamentale: indica un passaggio oltre un termine, un attraversamento, un mutamento da una condizione a un’altra. Nell’uso moderno ‘transportare’ diventa ‘trasportare’; ‘transformare’ ‘trasformare’… Noi diciamo ‘transazione’, ‘transigere’, ‘trànsito’, ‘transizione’ ecc. E sempre quel prefisso ci serve per formare parole e nomi nuovi, soprattutto del linguaggio dotto, scientifico o tecnologico: in geografia, col significato di ‘al di là’, come in ‘Transgiordania’ e in ‘transdanubiano’, o con quello di ‘attraverso’, in aggettivi riferentisi a mezzi di comunicazione (strade, ferrovie, ecc.): ‘transaustraliano’, ‘transatlantico’, ‘transiberiano’, ‘transpolare’. In particolare, nella terminologia scientifica, può indicare il superamento di un termine (transfinito), l’attraversamento di un corpo, scambio, spostamento; in medicina indica per lo più una sede o modalità di passaggio (puntura transparietale; contagio transplacentare); in biochimica, nel caso di enzimi, sottolinea una funzione di trasporto di un radicale: radicale aminico per le transaminasi; radicale metilico per le transmetilasi.

Se dunque la traduzione è, com’è nella sua radice, un trasporto, un transfert, tecnicamente un’estasi – ek-stasis, e cioè, ex+stasis – allora chi traduce può conoscere l’estasi, in quanto trasporto nella carnalità linguistica dell’altro. O meglio, può conoscere la paradossale ambiguità tutta mistica di ‘una lingua alterata’. Una lingua alterata, ho detto: paradossale condizione di chi parla la lingua dell’altro che ha traportato nella propria lingua.

Noi sappiamo che v’è nel linguaggio mistico del delirio, c’è dell’osceno, c’è della violenza, dell’effrazione, una turbolenza; c’è, infine, differenza. Il grande storico Michel de Certeau usa l’immagine bellissima di “lingua alterata”, da intendersi in senso proprio come la lingua in cui si manifesta l’altro, una lingua non in mano all’io.

Di Ciaccia volge in italiano Lacan. “Volgere”, “versione” è un altro modo per dire “tradurre”, “traduzione”. “Versione” viene dalla radice latina di vertere: per analogia con il latino, le lingue europee moderne ancora mantengono tracce di quell’azione. Parliamo di una versione italiana di Shakespeare, come di una versione inglese di Dante. Così come nella parola ancora più antica di ‘tropo’, risuona lo stesso gesto del ‘volgere’: un vertere che ha a che fare con l’atto di interpretare, spiegare.

Convertere – volgersi con o verso – è usato da Cicerone, quando nel suo De optimo genere oratorum afferma: “Converti enim ex Atticis duorum nobilissimas orationes”. È usato anche da San Girolamo nella sua lettera a Pammaco: dove dal contesto si capisce che usa il termine per indicare un tipo di traduzione libera, interpretante. Reinventante.

La ‘versione’ è in effetti pensata come una forma speciale di traduzione più libera, più tollerante, più aperta. Nel termine ‘versione’ prevale il senso di libertà, si fa sentire un’affermazione di libertà e si lascia intendere una differente relazione tra la resa e l’originale.

Al termine ‘versione’ associamo un rapporto personale, pragmatico, drammatico direi; è una traduzione firmata, una traduzione di qualcuno che ha il suo nome; e dunque si configura un modo di relazione – come di due attori che danno due differenti, ma egualmente interessanti performances della lingua – una lingua messa in atto. Agita. Da due soggetti.

Nel caso Di Ciaccia-Lacan credo che possiamo senz’altro dire che trattasi di un esercizio ove si dimostra una specialissima empatia, dove cioè si realizza una capacità particolare, un esercizio intendo dire che rende capaci, al calore della passione, di una comprensione profonda. Passione ho detto, perché più che una scienza, la traduzione è una passione… C’è della scienza, of course, si trasferisce nella traduzione qualcosa della vita intellettuale, ma soprattutto la potenza dell’immaginazione.

Per tornare al Montale, le sue traduzioni dei Sonetti di Shakespeare e dell’Amleto sono per l’appunto sue versioni. Io lettore so, sono perfettamente consapevole di non stare leggendo Shakespeare, so di stare leggendo Montale che prova a far parlare Shakespeare in italiano, e trovo che sì, lo sa fare, lo fa bene. Amo le sue traduzioni e non mi importa davvero se la parola italiana che trova è quella che traduce alla lettera la parola inglese. In effetti, se questo è il metro, siamo in un altro pianeta. La versione Montale di un sonetto di Shakespeare è un testo modificato, un midrash, una variante interpretativa, la cui variazione dall’originale va analizzata in termini logici di corrispondenza per deviazione.

Montale ne è consapevole e difatti nella nota al Quaderno di traduzioni del 1948, a proposito della sua traduzione dei sonetti 22, 33 e 48, parla di “rifacimenti”. Così li chiama. E lo sono. E sono a tutti gli effetti straordinari.

Ma ancora più straordinario è quel che egli impara da quei rifacimenti. Perché nel processo del rifacimento, mentre cioè rifà Shakespeare, acquisisce all’italiano un tono, un timbro del tutto nuovo alla nostra lingua. Insomma, se Dante risciacquava la sua lingua in Arno, Montale la risciacqua nel Tamigi.

Ma facciamoci ora la domanda centrale: come si incontrano l’italiano di Di Ciaccia e il francese di Lacan in queste traduzioni? le versioni di Di Ciaccia sono di una fedeltà assoluta. È affascinante vedere come in esse il traduttore giochi con tutto lo spettro della famiglia di significati che sprigionano dalla radice latina di vertere: conversione, perversione, inversione, reversione, avversione… Quel che accade – a me sembra – è che il traduttore si dona all’originale, vi si annulla, e così facendo vi si ritrova – un altro. Trova, intendo dire, la sua lingua nell’altro.

Nell’incontro con Lacan Di Ciaccia si confronta con una lingua di incomparabile ricchezza, e stravaganza. Una lingua inventata, una lingua massimamente creativa, divagante, joyciana, una lingua alterata essa stessa, profondamente penetrata dalle esperienze di lettura del maestro Lacan, c’è Joyce, c’è Sade, c’è da parte di Lacan il suo personalissimo love affair con le lingue che incontra, secondo una modalità creativo-poetica di stampo metafisico. C’è tutto quel che gli va, tutto quel che gli è congeniale. Lacan ha come pochi il sentimento della lingua, quello che in inglese si direbbe il sentimento the languageness of language. È così squisitamente intonato alla lingualità della lingua, all’aspetto langagière della lingua che ogni altra lingua dopo la sua sembra opaca. Ci abitua così alla percezione di una ricchezza mentale di fronte alla quale la lingua deve fare i salti mortali per inventarsi parole e modi di dire che non esistono, e dunque a scontraci con una alterità dentro, la nostra otherness within. Scusate se uso l’inglese, ma mi viene in mente Shakespeare.

Con le sue invenzioni Lacan ci dimostra come il pensiero sia povero, o troppo sistematico, o troppo logico… Come dice un poeta che amo, ormai lo sapete, in modo particolare: “that which is creative must create itself…“. È in questa vena che scrive Lacan, e in questa medesima vena creativa lo traduce Di Ciaccia. In una lingua che non rigetta la ragione, ma sgorga dallo schianto della ragione, quando la ragione si scontra con qualcosa che la supera.

L’italiano è una lingua molto bella, ma in verità anche chiusa, chiusa intendo nel senso che non è aperta ad innesti con altre culture; è stata una lingua imperiale, ma non imperialista, com’è l’inglese, com’è in misura ridotta il francese. Bisogna farle una certa violenza, all’italiano, per tradurre Lacan. La stessa che Lacan fa al francese. Forse di più.

La quantità di violenza richiesta, e su chi orientarla, questo è il problema. Si può scegliere se fare violenza a se stessi, o all’altro. Alla propria lingua, o alla lingua straniera. Alla lingua propria o a quella dell’altro. Si può forzare, tirare, stirare, ma non si deve rompere… Sempre tornando a Montale, Montale usa un verbo molto espressivo: torcere il collo. Torcere il collo significa strozzare. Lui dice: “volevo torcere il collo all’eloquenza della nostra cara vecchia lingua aulica”.

Di fatto Lacan gira, rigira, storce, distorce il francese. E Di Ciaccia ripete lo stesso gesto in italiano. Se invitate qualcuno a pranzo a casa vostra, voi farete in modo che sia trattato bene, siete pronto a sacrificarvi, voi, il padrone di casa, per l’ospite: è una legge minima, la prima, dell’ospitalità. Di Ciaccia non v’è dubbio, credo, che sappia che c’è della violenza implicata nella relazione con l’altro, l’altro altro, l’altra lingua, e sa anche che ‘quanto’ è tutto. E che in italiano chi legge deve trovare un senso. E questo senso sarà legato alla giusta misura della violenza.

Io ho praticato la stessa azione. Conosco il sentimento di umiltà e devozione che il traduttore può, deve nutrire nei confronti del testo che ha di fronte. Nei confronti dell’originale. Conosco anche la tentazione di ‘rifare’ il verso, di ‘imitare’, di ‘gigionezzare’… E ammiro Di Ciaccia perché non lo fa mai. Il suo rispetto dell’originale è assoluto. In un certo senso, ha l’umiltà di offrire una versione di servizio. Vuole aiutarci a leggere Lacan in italiano. E lo fa davvero.

Naturalmente, noi dobbiamo considerare che Lacan non ha scritto in italiano. Lacan è qualcosa che è accaduto alla lingua francese. Non a un’altra lingua. Intendo dire: la sua lingua nasce in quella lingua. Potremmo giocare con i termini langue e parole, dire che la sua parole è l’effetto di quella certa idea sociale e convenzionale del linguaggio in cui cresce… Ma è un dato di fatto: Lacan è qualcosa, è una malattia che è di quella lingua.

È questo un pensiero che in sé condanna alla sconfitta il mestiere del traduttore. Ripeto, Lacan non è nato in italiano. Dobbiamo tenerlo a mente. Significa qualcosa: significa che dalle sue budella, dal suo ventre, l’italiano non ha generato quell’evento linguistico.

Ma il traduttore assume l’impossibile compito di lasciar accadere un evento in una lingua che non l’ha generato. E poiché le lingue non sono assolutamente straniere l’una all’altra, ma sono intrecciate quanto al fatto che vogliono tutte esprimere, e poiché l’essenza ultima della lingua è di comunicare noi pensiamo che questa cosa impossibile debba, possa accadere.

E questo libro è la testimonianza che è accaduto. Non siamo in presenza di una pigra mimesi, di una passiva imitazione mimetica. Chiaramente Di Ciaccia sceglie la sua forma di fedeltà. Alla forma. Al movimento del pensiero. In ogni traduzione c’è del sacrificio implicato. È la parte più difficile del mestiere. Non si riuscirà a far passare tutto, tutto il senso e tutto il suono dell’originale. Il trasferimento non sarà mai totale. Ecco allora le note, in cui a volte ci spiega l’intraducibilità di certi termini.

Ma la verità è che questa impresa può avere luogo perché Di Ciaccia ha una grande fiducia, fiducia in Lacan, più che in se stesso. Fiducia in sé e fiducia nel lettore, perché ha fiducia in Lacan, che saprà trovare il suo lettore, malgrado la complessità del suo ragionare.

In questo l’aiuta il suo essere analista. È come un poeta che traduce un poeta. Per questo ho fatto l’esempio di Montale con Shakespeare. Bisogna avere una grande fiducia nella propria capacità di ricreare quel complesso sonoro, in cui la poesia consiste – nel caso di Montale. Un traduttore che non sia un poeta, un lettore per quanto appassionato, che fa quello che fa perché è innamorato dell’originale, non avrà mai lo stesso coraggio di un poeta. Si concentrerà più sul significato, mostrerà interesse e sensibilità ai ritmi e alle forme, ma soprattutto vorrà mantenere tutte le parole e tutti i significati. Quel traduttore duellerà con il poema inglese che sceglierà di tradurre non per sostituirlo, non per sorpassarlo. Vorrà che la sua traduzione sia trasparente: che non copra l’originale, non oscuri la sua luce.

Allo stesso modo, Di Ciaccia si prende la libertà di giocare con l’italiano, proprio per l’estrema fedeltà che tributa al suo autore. Sa che ogni lingua gioca a modo suo, e proprio questo rende il compito di tradurre così difficile… Certo, lui ha vicino Michelle, che ha un orecchio fino, e soprattutto per la quale quella lingua è madre, e dunque ne conosce i balbettii – che sono fondamentali per chi voglia ben tradurre… Perché chi traduce, il traduttore, attenzione, non è un tecnico della lingua; semmai, deve conoscerne gli inciampi, i mancamenti… Bisognerebbe sempre tutti rimanere infanti, per saper davvero ascoltare una lingua… E rimanere così esposti, così pronti alla meraviglia, da avvicinare ogni volta quel quid linguistico che rimane musicale, istintivo, non programmato, improgrammabile; bisognerebbe, per tradurre bene, agire per istinto, senza una teoria.

Per concludere, a me sembra che quel quid, o quiddity direbbe il poeta gesuita Hopkins, Di Ciaccia lo coglie. E, in ultimo, di una cosa lo invidio, del fatto che non sento nelle sue traduzioni quel che sento spesso in altre traduzioni, certo nelle mie. L’angoscia.

Per Montale, ad esempio, l’angoscia deriva da una lealtà che non è tanto rivolta all’originale, ma alla poesia stessa. Vuole fare poesia in italiano del testo inglese che ha di fronte. E si angoscia, e spesso fa delle operazioni di intervento nel testo originale che lo deformano. Per non perdere, butta via.

Non vorrei dire di più, ma vorrei indicare come nella traduzione ci sia in atto una esperienza della perdita. E forse bisogna avere forte la fede nella resurrezione per praticarla come la pratica Antonio Di Ciaccia.

Più in generale, prima di tacere, vorrei far balenare davanti ai vostri occhi un’immagine di Henry Corbin, il grande studioso dell’antica cultura islamica e grande traduttore da quella letteratura. Corbin descrive un grado dell’ermeneutica che nell’antica cultura dell’Islam è chiamato ta’wil. È lo stadio che viene dopo l’esegesi letterale di un testo, quando lo studioso si confronta con il problema di trasportare quello che ha letto nel testo al suo significato, al significato nascosto che esso contiene, che ne è all’origine. In questo stadio lo studioso dovrà rimuovere l’enunciazione dall’apparenza esterna, esteriore che la rappresenta, in cui essa si manifesta, si incarna; volgerla, per così dire, verso la sua verità non incarnata.

Mi chiedo, più in generale, se non sarebbe interessante discutere magari un’altra volta se non sia esattamente questo quel che fa il traduttore, se non sia questo il compito e la missione del traduttore: uno che ci conduce alla verità, la verità, visto che è un’incarnazione, in qualsiasi lingua avvenga, è pur sempre illusoria, temporanea; importante, certo, ma solo in quanto ci mostrerà un barlume, solo un barlume, però, di qualcosa di per sé inesprimibile.

In questo senso il traduttore non crea né ricrea ma semplicemente facilita, agisce da inconsapevole strumento di questo riconoscimento. Il sogno dell’“espressione totale” non dovrebbe, mi chiedo, rimodellarsi in questa consapevolezza? E questa consapevolezza tenere a bada l’angoscia di cui dicevo prima? Nel riconoscimento umile che l’originale stesso non è a sua volta che una maschera dell’impronunciabile. Dell’impensabile. E la nostalgia dell’originale non sarebbe più quello che è sempre stata: una romantica sottomissione alla metafisica perfezionista della presenza.

Lo scrittore, il poeta lo sanno. Ce lo ripetono da sempre: quel che vogliono cogliere nella lingua, gli sfugge. Cercano di catturarlo, ma c’è sempre “some gathered and latent force” – della forza, dell’energia raccolta e latente in un testo – come dice Henry James: che lo scrittore non riesce a mettere in parola. Le parole essendo la veste esteriore che lo scrittore sa trovare per quell’energia. Se teniamo questo a mente, i rifacimenti di Montale valgono quanto Shakespeare. E cioè come modi provvisori di catturare una presenza già in quella rappresentazione provvisoria.

E il traduttore, per tornare all’immagine da cui ero partita, sarebbe sì un go-between, un pandaro, un ruffiano. Ma di tipo sacro.

ANTONIO DI CIACCIA: Dunque adesso toccherebbe a me… Intanto, sono confuso dai tuoi elogi, ma son contento che hai citato Michelle, facciamo équipe da molto tempo, infatti, i primi testi tradotti di Lacan risalgono al 1986. Alcuni articoli degli Altri scritti li abbiamo tradotti e ritradotti più volte. Continuo a parlare al plurale perché questo è un lavoro di squadra in cui Lacan lo leggiamo rigorosamente ad alta voce – e consiglio anche a voi di farlo. Potrete notare che anche gli Scritti sono completamente diversi se li leggete mentalmente e se li leggete a voce alta, facendo però attenzione al fatto che molto di Lacan passa nel ritmo. Il suo è un ritmo.

Innanzitutto dunque vorrei parlare di Lacan, e di questi Altri scritti che sono dei testi omogenei nella progressione, nella progressione del suo pensiero nel cercare di cogliere la teoria analitica. Ma essi sono completamente disomogenei nello stile. Questa è una delle vicissitudini della traduzione: Lacan non mantiene sempre lo stesso stile, cambia nel tempo. Cambia nel tempo nella misura in cui varia la sua posizione in rapporto alla Cosa analitica. È sicuramente diverso da Freud, che è sempre omogeneo. Freud usa una lingua bellissima il tedesco. Tra l’altro, lo sapevate che ha preso il Premio Goethe? Lacan, a differenza, usa stili diversi. Personalmente, ne ho individuato tre variabili.

La prima riguarda le persone a cui si indirizza. La seconda concerne il punto che vuole sviluppare, e lo sforzo connesso con questa operazione. La terza rinvia alla scelta forzata a cui è sottoposto Lacan da parte dell’oggetto analitico.

Nelle prime due Lacan svolge un ruolo attivo, nella terza è passivo.

Riprendo brevemente questi tre punti.

A chi si indirizza. Egli si indirizza contemporaneamente a tutti ma, fondamentalmente, solo a chi ci mette del suo, à tout le monde, mais pas à n’importe qui. In effetti, Lacan considera che il suo insegnamento, i Seminari, ma soprattutto gli Scritti, quindi anche gli Altri scritti, siano dell’ordine di quei testi che sono da interpretare. Per puntualizzare quello che dico riporto qualche passo. In Televisione, riferendosi a quanto abbiamo appena detto, Lacan dice:

“Perché non c’è differenza tra la televisione e il pubblico davanti al quale parlo da molto tempo in quello che viene chiamato il mio seminario. In entrambi i casi uno sguardo: a cui non mi rivolgo né in un caso né nell’altro, ma in nome del quale io parlo”.

Mi sembra che in questa frasetta sia condensato tutto quello che volevo dire. Evidentemente, in Lacan, questo è vero e non è vero. Per esempio, nel volumetto Il mio insegnamento e Io parlo ai muri, composto da sei interventi di piacevole lettura, ebbene lì fa una differenza fra il “mio pubblico del seminario”, quello che è abituato ad ascoltarlo, e le persone che sono lì presenti. Evidentemente questa differenziazione non è fatta a caso. Nelle conferenze di Io parlo ai muri si rivolge a degli psichiatri e lui considera che gli psichiatri abbiano le orecchie piuttosto chiuse.

La seconda cosa che volevo sottolineare riguarda lo sforzo operato da Lacan per cogliere il punto a cui vuole arrivare. In realtà è un punto di per sé difficile da cogliere. Egli ricorda che non parla o scrive così per il gusto di complicare le cose, ma per la difficoltà di avvicinarsi a esso. Diciamolo con i termini di Lacan, questo punto focale è il reale, quel reale impossibile, che è presente nella clinica. È quel reale che fa soffrire ognuno, che egli definisce come “l’impossibile da sopportare” e che però si incontra nella lingua stessa e, come tu, Nadia, notavi, si incontra anche nelle traduzioni.

È chiaro che qui abbiamo un’infinità di citazioni possibili. Ve ne leggo una, a pagina 537, in cui Jacques-Alain Miller fa riferimento a un verso di Boileau. Nicolas Boileau è il classico della lingua francese che Lacan, anche se non lo dice mai, non aveva molto in simpatia perché ha chiuso la lingua francese in un classicismo dal quale ci sono voluti due secoli per uscire.

Andiamo alla citazione di cui vi parlavo. Chiede Jacques-Alain Miller a Lacan: “Solletichi dunque a vedere la verità che Boileau versifica così: ‘quel che si concepisce bene si enuncia chiaramente’”.

Lacan interviene in questo modo: “Le rispondo a botta calda, bastano dieci anni perché ciò che scrivo diventi chiaro per tutti. L’ho visto per la mia tesi dove, nondimeno, il mio stile non era ancora cristallino. È dunque una questione di esperienza. Ma non La rinvio alle calende”.

E risponde alla questione di Miller: “Ristabilisco che quel che si enuncia bene lo si concepisce chiaramente”.

Dunque se la frase di Boileau, che dice Ce que l’on conçoit bien, s’énonce clairement, afferma esattamente il contrario della regola di Freud, la frase di Lacan, ce qui s’énonce bien, l’on le conçoit clairement, ribaltando i termini di Boileau, enuncia la regola freudiana secondo Lacan, vale a dire quella dell’associazione libera.

Notate che Lacan utilizza il termine “ristabilisco”, sulla base dell’esperienza analitica che egli ha, ossia rende prioritaria la sua frase rispetto a quella che corrisponde alla vita comune, normale, detta da Boileau. Lacan ristabilisce il fatto fondamentale che prima uno parla e poi pensa.

In fondo l’analisi è semplicemente questo: parlare prima di pensare. Direi se uno ha il coraggio di farlo – e non è semplice – l’analisi può funzionare.

Dicevo però che per Lacan si tratta di una scelta forzata. Infatti, c’è per lui una difficoltà a individuare qualcosa: quell’impossibile a dire. Possiamo addirittura affermare che Lacan, fino agli anni ’50, non era proprio per niente Lacan, dato che considerava che tutto potesse passare attraverso la parola, ossia che quell’impossibile a dire non ci fosse. Possiamo dunque pensare che egli abbia avuto uno shock tremendo nel rendersene conto. Uno shock tremendo testimoniato da un seminario straordinario ma chiaramente sofferto, vale a dire il Seminario VII, L’etica della psicoanalisi. In questo seminario ritengo che probabilmente Lacan stesse vivendo un capovolgimento personale molto intenso tale da farlo vacillare sulla validità dell’esperienza psicoanalitica. In questo seminario si rende conto che c’è qualcosa che è impossibile da dire, dunque non tutto può passare attraverso la parola. Si tratta di un godimento all’interno del soggetto, all’interno del sintomo del soggetto, cosa che Freud – tornando da Berlino per andare a trovare quel medicastro di Fliess – aveva chiamato das Ding.

Ebbene das Ding – la Chose, la Cosa – è proprio quello che farà ostacolo a che tutto diventi senso, ossia che la psicoanalisi diventi un’ermeneutica. Tuttavia è proprio quel das Ding che obbligherà a una scelta forzata. Scelta forzata che non è diretta verso un oggetto, ma, dettata imperativamente dall’oggetto stesso, da das Ding al momento del suo emergere. Come avrete notato parlo qui del terzo punto.

Comunque Lacan riesce a fare un’operazione rispetto alla quale può affermare di essere stato l’unico a realizzarla: quella di rendere il suo testo isomorfo con l’inconscio, come lui stesso afferma: “io sono stato l’unico a poter scrivere in un modo che è della stessa stoffa dell’inconscio”. Ma che cosa comporta questo isomorfismo? Esso produce un’esperienza che è molto comune in chi legge Lacan e ha un’esperienza di analisi personale. Dopo non averci capito niente, nonostante averlo letto innumerevoli volte, il testo diventa chiaro, anzi lampante. Questo avviene non già in funzione delle ripetute letture, poiché è strettamente connesso con l’avanzamento della propria analisi. La cosa avviene in modo repentino, improvviso.

Questo effetto mi è apparso evidente leggendo Lacan in francese, ma personalmente non posso dire se avviene nella stessa misura nel testo tradotto in italiano. Non posso dirlo, anche perché il mio contatto con il testo di Lacan è avvenuto in francese. Ed è lì che ho fatto questa esperienza.

Ci sono dei passaggi, in francese, in cui non si può dire che così. Anche per questo motivo io non

cambierei nulla. Tra l’altro è uno dei problemi maggiori di traduzione, tanto che a volte mi sono detto: “perché tradurlo in italiano quando in francese è così chiaro? Bisognerebbe che tutti imparassero il francese e lo leggessero in francese”.

Rispetto a questo punto dell’isomorfismo, mi sono segnato due passaggi della Postfazione al Seminario XI. Lacan chiama oggetto a quel punto centrale, che è la trasformazione operativa frutto di das Ding. Per l’analista esso ha una funzione nella cura. È come se l’oggetto guidasse. In che modo esso guida la cura? Egli dice, a p. 503: “L’oggetto a, come lo scrivo io, è il binario su cui giunge al plusgodere ciò in cui si abita, anzi, si rifugia la domanda da interpretare”.

L’analista deve quindi saper reperire quest’oggetto a, altrimenti va per campi. Per questo le freudiane associazioni libere non sono libere, poiché sono legate all’oggetto a. Quindi è una trappola dire che uno si deve attenere all’associazione libera nella cura, poiché in realtà tenendosi all’associazione libera, il soggetto chiama, fa venire a galla l’oggetto a che guiderà la cura. Tocca all’analista reperirlo e operare in funzione di questo, mettendolo in posizione di agente dell’esperienza analitica. Bene, tutto lo scritto di Lacan funziona in questo stesso modo. Ed è per questo motivo che possiamo dire che è isomorfo all’inconscio.

C’è un altro passaggio che vi volevo leggere: “Quel che è spaventoso è che il rapporto con cui si fomenta tutta questa faccenda” – ossia il rapporto del soggetto con il significante – “non riguarda altro che il godimento e che, instaurandosi una condivisione fra l’interdetto lanciato dalla religione e il panico con cui procede a questo riguardo la filosofia, ne scaturisce una moltitudine di sostanze in sostituzione dell’unica propria, quella di cui è impossibile che si parli in quanto è il reale”. Come questo passaggio, a parer mio molto chiaro, mette in evidenza, tutto gira intorno al godimento come impossibile a dire.

Abbiamo poi un gioco di parole, perché Lacan dice: “Questa-stanza-di-sotto non potrebbe essere che si renda più accessibile in quella forma per la quale già lo scritto del poema rende il dire meno stupido?”. In francese abbiamo stance-par-en-dessous che rinvia a substance, sostanza. L’oggetto in causa è il godimento, rispetto a cui riprendo un attimo il passaggio di Lacan il quale dice che “ne scaturisce una moltitudine di sostanze in sostituzione dell’unica propria, quella di cui è impossibile che si parli, in quanto è il reale”. Questo è il godimento.

Nadia Fusini: [dice qualcosa fuori microfono]

Antonio Di Ciaccia: Sì, Nadia, nel lavoro di traduzione c’è godimento. Una cosa che è straordinaria in Lacan è che ogni suo testo, preso da aspetti diversi, è ogni volta un compendio. E questo vale anche per testi brevi o stranissimi. Parla della psicosi infantile? Se leggete con attenzione non è nient’altro che il compendio della teoria analitica. Abbiamo, per esempio, una versione che chiamerei seria e seriosa, ed è Radiofonia, poi c’è una versione seria che io trovo ariosa e che mi piace molto ed è Televisione.

C’è una versione seria e tosta ed è Lo stordito. Ricordo che ci ho messo anni per accettare di poterlo tradurre. Poi, quando mi ci sono messo, ho visto che la montagna era scalabile, ma all’inizio avevo dei momenti di panico soltanto a pensarci.

Poi c’è una versione seria e giocosa, che è molto breve, ed è quella di Joyce il Sintomo, in cui Lacan in un convegno su Joyce a Parigi, ne fa il verso. Ricordo di aver tradotto questo testo nella casa di campagna, l’ho fatto in qualche giorno, sono solo sette, otto pagine, decidendo subito di non fare molte note, altrimenti avrei dovuto metterle a ogni parola. L’ho tradotto quasi di getto, l’ho rivisto, l’ho mandato a Nadia la quale mi ha rimproverato al telefono e mi ha detto: “no, così non va!”, e io le ho chiesto: “spiegami perché”. Nadia allora mi ha spiegato una cosa, che c’è una differenza fra la scrittura di Joyce e quella di Lacan. Cosa che non toccava la mia traduzione, ma toccava Lacan. Mentre Joyce è guidato dalla lingua, Lacan usa la lingua per dire la teoria analitica. Quindi si vede la mano di Lacan che fa giocare la lingua. In Joyce non si vede una finalità, se non, forse, quella della distruzione della letteratura. In Lacan si vede una finalità, ed è quella di offrire un ulteriore compendio della teoria analitica.

Riprendiamo ora qualche punto sulla complessità della traduzione di Lacan, che tocca diversi aspetti. Uno dei più importanti è che bisogna comunque far passare esattamente la Cosa analitica. Questa è una grossa preoccupazione. Però, a un certo punto, e questo lo dissi a Jacques-Alain Miller, ritenevo che il testo di Lacan non fosse da considerarsi come un testo sacro, nel senso che non potesse essere toccato. Ma anzi, è da considerare come un vero testo sacro, il quale richiede interpretazione. Quindi è chiaro che ci saranno altre traduzioni, più avanti, che interpreteranno il testo differentemente. Io, personalmente, ho cercato di fare in modo che un lettore italiano, aprendo il libro, possa capire che c’è qualcosa di quella Cosa analitica che vi circola dentro, anche se non necessariamente completa, ma che gli permetta di interrogarsi sul proprio rapporto con l’inconscio. Ho cercato di fare attenzione affinché la sua scrittura rimanesse come l’avevo sempre percepita: Lacan è gioioso nella sua scrittura e nel suo insegnamento, è ironico da morire, prende in giro un sacco di persone, compreso se stesso. Mentre invece nelle traduzioni che vedevo circolare lo trovavo appiattito, sbiadito, mancante di quello stile sottile e brillante che lo caratterizzava.

Volevo leggervi questo passo, a p. 359, rivolto a Mannoni e ad altri analisti che si occupavano di psicosi infantile: “Tutti sanno che io sono allegro, mi danno addirittura del monello: mi diverto. Mi capita continuamente, nei miei testi, di lasciarmi andare a facezie poco gradite agli universitari. È vero. Non sono triste. O meglio, a ben vedere un motivo di tristezza ce l’ho nell’esistenza che mi è toccata: che ci siano sempre meno persone a cui posso dire i motivi della mia allegria, quando sono allegro”.

DOMANDA: Esiste un analista che riesca veramente a individuare quell’oggetto a?…

ANTONIO DI CIACCIA: Rispondo alla sua questione. L’oggetto a, in realtà, è un vuoto, è un incavo, intorno a cui gira tutta la catena significante della persona, quindi non viene mai detto, la parola ci gira intorno. Però questo incavo, vacuolo, come lo chiama Lacan, viene riempito e coperto da una serie di oggetti che episodicamente noi ritroviamo nella nostra vita. Freud ne aveva trovati due, anzi tre, ma del terzo non ne parliamo adesso perché farlo ci porterebbe molto lontano. Consideriamo dunque solo i primi due: sono l’oggetto orale e l’oggetto anale. Sono questi gli oggetti che vengono in quel posto lì. In Lacan questi sono gli oggetti della domanda e non gli oggetti delle tappe evolutive. Si tratta del rapporto del soggetto che nasce, quindi il bambino, il neonato, rispetto all’altro. L’oggetto orale è l’oggetto della domanda, domanda che il bambino indirizza all’altro, alla madre per esempio, per prendere l’oggetto che gli è proprio: il seno, seno che, come dice Lacan, appartiene al bambino e non alla madre. Cosa che del resto tutti sanno poiché in quel momento il seno non è erotico, ma cambia statuto, infatti, un bambino lo si può allattare dappertutto e non scandalizza nessuno. C’è poi l’oggetto anale che è quello della domanda dell’altro, dell’altro materno, per esempio, che si rivolge al bambino: “fai quella cosetta, devi farla lì, proprio lì… guarda quanto è bella la tua cacchetta”. Questi due oggetti funzionano al livello della domanda, non al livello del desiderio.

La grande scoperta di Lacan, che noi tutti conosciamo perché fa parte della nostra vita, è che al livello del desiderio questi due oggetti si chiamano sguardo e voce. Questo vuol dire che se volete fare la genealogia di quando vi siete innamorati, bisogna che rievochiate che cosa è successo sui versanti dello sguardo e della voce. Bastano questi due oggetti al livello del desiderio per infuocarvi e iniziare a farvi desiderare. La cosa comporta delle variazioni, in linea generale diciamo che le donne si innamorano della parola e di chi parla, gli uomini dello sguardo. Ma come voi sapete, non si tratta di una divisione anatomica. Visto che ci siamo, vi dirò che il grande problema del tempo moderno secondo Lacan, è che il capitalismo ha sostituito questi oggetti con una serie di oggetti inutili. Il consumismo è questo: non si desidera più a partire dallo sguardo e dalla voce, ma a partire da quegli oggetti che il consumismo presenta come se fossero assolutamente necessari per godere. Ed è falso.

Vorrei terminare con un piccolo passaggio di Joyce il Sintomo, a pp. 558-559. Lacan affibbia a Joyce il nome di Sintomo. “Joyce il Sintomo spinge le cose con il suo artificio a un punto tale che ci si domanda se egli non sia il Santo,” – in Televisione Lacan dice che l’analista è quello che un tempo si chiamava un Santo – “il sant’omo fino a t’rare le cuoia”. – Qui in francese c’è un gioco su sinthome-saint Thomas d’Aquin, San Tommaso d’Aquino, che era il punto di riferimento di Joyce. “Grazie a Dio, perché lo si deve a lui, ossia a quel volere che gli si suppone (dato che in fondo al cuore si sa che egli non ex-siste), Joyce non è un Santo. Joysce troppo dell’S.Ca.bello per esserlo. Della sua arte ha art-goglio smisurato. A dire il vero non c’è un Santo-in-sé, c’è solo il desiderio di cesellare quella che si chiama la via, la via canonica. Per cui capita che si ‘ntomi nella canonizzazione della Chiesa, la quale ne sa quanto basta per riconicarsi, ma in tutti gli altri casi prende un grosso granchio. Infatti non c’è una via canonica per la santità, malgrado la volontà dei Santi; non c’è una via che li specifichi, che faccia dei Santi una specie. C’è solo la scabellostrazione, ma la castrazione dello sgabello si compie esclusivamente con l’escappata”. – Escappata è ciò che fugge dal senso ed è lì il godimento. –  “C’è Santo solo a non voler esserlo, solo se si rinuncia alla santità”.

Mi fermo qui.

Quest’ultimo testo è stato trascritto e redatto da Chiara Nicastri.